Durante gli ultimi giorni soleggiati del mese di settembre, mi è capitato di rileggere il testo del seminario XVII che Jacques Lacan tenne alla Facoltà di Diritto dell’Università di Parigi dal dicembre 1969 alla primavera dell’anno successivo.
Debiti e crediti per una coscienza di specie
Un anno prima l’università francese era stata scossa dai venti della protesta, i quali, stando alle testimonianze del cui peso e della cui leggerezza altri ci hanno caricati, continuavano a soffiare con un certo vigore. Tra le conquiste che il movimento studentesco aveva allora strappato al governo Pompidou c’era stata quella dell’istituzione di corsi sperimentali, dove una università critica potesse muovere i primi passi sulle antiche acque del sapere. Presso la località di Vincennes, alle porte della capitale, l’esecutivo aveva prescelto una sede che, non forse a caso, era stata in precedenza adibita ad accogliere uffici della burocrazia militare. Qua Lacan intrattenne una composita folla di centinaia di studenti con quelli che chiamò Quattro improvvisi, nell’intenzione di svilupparvi un discorso in esplicito contrasto con quello svolto alla Facoltà di Diritto. L’Associazione Psicoanaltica Internazionale, di rigida osservanza freudiana, aveva da poco espulso Lacan a causa delle sue tesi eterodosse e, verosimilmente, proprio in ragione di ciò egli aveva trovato occasione di esporle negli ambiti consentiti dall’istituzione universitaria. A Vincennes la contestazione, memore di egualitarismo giacobino, investì anche le sue lezioni. Incalzato dai contraddittori Lacan tirò in ballo, non è facile stabilire con quale pertinenza, le unità di valore, il sistema di valutazione degli studenti, basato su un punteggio di debiti e crediti, che era entrato da poco in vigore proprio in virtù delle proteste studentesche. Il colloquio a più voci che ne scaturì nell’aula di Vincennes passò attraverso fasi che, a rileggerle, disvelano uno stile ed un senso umoristici: una voce provocatoria si leva per proporre che la lezione si trasformi in un “love-in selvaggio” (evidentemente tali espressioni erano allora in voga), un’altra chiarisce invece che gli studenti dovrebbero uscire dall’università per unirsi, su posizioni rivoluzionarie, ai contadini e ai lavoratori, Lacan ribatte con una riflessione sul posto che l’università occupava nella società sovietica, quella del socialismo reale; in un generale trambusto si lanciano accuse, si azzuffano ancora, faticano a trovare una conclusione che non sia incoerente o incompleta, che li motivi a sospendere la riunione. Il sistema dei debiti e dei crediti li ha intrappolati nelle sue conseguenze, proprio come in un dramma di Beckett o come accade alle immagini impresse su una pellicola di Buñuel.
Il sistema dei debiti e dei crediti, del resto, non suona affatto estraneo al discorso del capitalismo, che Lacan, nell’elaborazione psicanalitica, riconobbe fondato sulle basi di quello che definì discorso del padrone. Traducendo in una forma che ben intuisco possa risultare approssimativa: il padrone mette al lavoro il servo affinché dal saper fare di lui possa estrarre il proprio godimento, da trasformare in una verità da padrone. Anche in ciò non manca dell’umorismo, a giudicare dagli effetti: grandi tours, grandi globalizzazioni, grandi piroette, un gran mordersi di code; la economica miseria del prestigio. Tutto ciò esige il passaggio ad un’altra coscienza, ad un’altra verità, chiede la “sortie de l’usine capitaliste”, l’uscita dall’inabitabile opificio arredato di tutto il suo apparato pedagogico, che riduce gli adulti all’infantilismo e destina i bambini a disilluse precocità.
Un debito di intelligenza, che oggi paghiamo tutti con l’aridità dei cuori e l’angustia delle prospettive, la nostra epoca infingarda lo ha in effetti contratto con quella ormai lontana degli anni ’70. Il fatto che intellettuali che assumessero allora posizioni coraggiosamente critiche delle strutture simboliche e materiali del capitalismo non fossero risparmiati dalla contestazione è, senza dubbio, indice di una vitale pulsione trasformatrice che animava la società e gli individui, non solo di una pur reale inadeguatezza delle coscienze al compito pratico che la situazione storica poneva. Quello di Lacan non fu l’unico caso. Sorte analoga toccò, ad esempio, a Michel Foucault, il quale pure andava sfatando i miti dell’ideologia borghese e del loro decorso storico; chi abbia tempo per sincerarsene legga almeno il breve saggio La volontà di sapere (Feltrinelli, 1978), dove sono illustrate le funzioni di controllo sociale svolte, ben fino al presente, dalla proliferazione dei discorsi sulla sessualità di cui siamo debitori all’epoca dei lumi, al settecento della rivoluzione borghese.
Una valutazione dei danni e delle nocività
Ben umoristica, ben più beffarda di ogni hegeliana astuzia della ragione, è la tardività liberale con cui sistemi di valutazione che erano sperimentati in lontani anni di fermento e di rivolta vengano poi adottati nelle istituzioni scolastiche di paesi più arretrati quali il nostro: a distanza di decine d’anni. Non è che un esempio preso tra tutti i catastrofici ritardi che l’ordine capitalista accumula ovunque nell’affrontare ogni questione che riguardi in profondità le nostre vite, ogni questione strategica, a voler usare il linguaggio tecnico della politica reale, che per nostra fortuna la tradisce. Per loro, per quanti prendono, o non prendono, le decisioni che gravano sulle nostre spalle e le nostre teste, il tempo è garantito dall’accumulazione del capitale: hanno sempre qualcuno da pagare perché perda il proprio tempo in vece loro, cosicché essi possano dedicarsi anima e corpo a custodire ciò che è morto e sepolto, tutto ciò che toccano, come del resto già si faceva ai tempi di re Mida. Simili pensieri potrebbero, quantomeno nella testa di alcuni, rimettere le lancette dell’orologio della storia, rimetterle in una posizione dove la coscienza sia, all’unisono, storica e contemporanea. In ogni istante si tratta di prendere in mano le proprie vite, nel punto in cui si è giunti per andarsene. Mi auguro che tali riflessioni possano iniettare almeno un poco di benefica ansia nell’animo di quanti soggiacciono alle tecniche di manipolazione del tempo e della percezione, delle quali si fa forte l’attuale dominio di ciò che è morto su ciò che vive, a quanti, ad esempio, si perdono nei labirinti dell’attuale politica, quella delle democrazie parlamentari imperialiste, nei quali labirinti si corre, senza accaldarsi poi tanto, da destra a sinistra e da sinistra a destra, per conservarsi immobili nella medesima impotenza.
Alla fine tutto converge, comunque, ad una questione di stile: si vede bene quanto essa non possa essere elusa allorché si debba decidere se la protesta assumerà un carattere violento ovvero pacifico. In ogni caso, non potrà viversi senza pagare un prezzo che valga meno della vita stessa. Così è. Soltanto dopo di noi, in un modo che ancora diversamente sfugge a ciascuno e della cui mancanza soltanto dobbiamo considerarci non già colpevoli ma senza alcun dubbio in difetto, soltanto dopo di noi la rivoluzione può essere compiuta, e le cose staranno, allora, diversamente. Detto in maniera tanto esortativa quanto icastica: responsabilità verso le generazioni future, gli uomini e le donne del futuro. Per non mancare al godimento del nostro amore e della nostra intelligenza presenti, è a loro che non dobbiamo farli venir meno. Viva l’autunno e viva la primavera; che presto si partecipi tutti, ciascuno secondo i propri bisogni e le proprie possibilità, alle loro nozze.
Giancarlo Micheli
articolo pubblicato sulla rivista Arcipelago (n.52; novembre-dicembre 2010)
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